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Maria Rita Parsi e Coronavirus: gestire lo stress in quarantena

Vivere in quarantena non è semplice: Maria Rita Parsi ci spiega come gestire eventuali situazioni di stress e trarre il meglio dalla situazione.

Maria Rita Parsi ci parla della vita in isolamento ai tempi del Coronavirus

La psicoterapeuta Maria Rita Parsi è l’empatia fatta persona. E, in questi giorni di quarantena forzata, non può che mettersi nei panni degli altri. I meno fortunati, perché colpiti dal virus, o coloro che fragili, poveri e senza privilegi lo erano anche prima. E tutti gli altri: i bambini, i ragazzi e quelli che si sentono in gabbia perché «non sono più capaci di stare fermi o non hanno mai fatto i conti con il proprio comportamento psicologico e sociale».
Approfittando di questo isolamento forzato, Parsi ha preso carta e penna e si è messa a scrivere il decalogo del coronavirus, sottotitolo: “Basta davvero!”. Sta inoltre collaborando, con la sua Fondazione Movimento Bambino onlus, all’indagine scientifica sui “mutamenti sociali in atto ad opera del coronavirus”, curata dal CNR con la partecipazione di INGV e coordinata dal sociologo Antonio Tintori.

Coronavirus e Quarantena: intervista alla psicologa e psicoterapeuta Maria Rita Parsi

In tempi di Covid-19, la parola d’ordine è #iorestoacasa. Come gestire questo imperativo categorico?

«Affrontando l’ambiente e riprendendo contatto con le cose di casa e i nostri affetti. Questo momento può trasformarsi in un’occasione eccezionale per rivoluzionare, rinnovare e riorganizzare gli ambienti, rendendoci finalmente conto di quante cose inutili, da buttare, abbiamo ammassato nel nostro spazio vitale. Diventa, allora, fondamentale darsi un ritmo, degli orari. Possiamo, da un parte, recuperare la lentezza, persino qualche piccola pigrizia, e dall’altra darci un contenitore per evitare di sentirci in gabbia e subirla».

Niente baci, niente abbracci, niente strette di mano, molta igiene. Si può costruire una nuova socialità?

«La nuova socialità si crea con lo sguardo, con le parole, la voce. Che, ora più che mai, valgono come un abbraccio, abbracci che ritroveremo, e a cui daremo valore vero, dopo. So di donne anziane che chiacchierano con le amiche in video call all’ora di pranzo e cena o di bambini che parlano e mostrano i propri disegni su WhatsApp ai nonni, per esempio. Ora la tecnologia può diventare un alleato straordinario e farsi mezzo per curare rapporti che non abbiamo mai il tempo di curare, per acquisire competenze o studiare nuove soluzioni».

Niente panico, è un altro degli imperativi categorici di questo momento. Qualche suggerimento per gestire la paura?

«La disperazione e la paura sono cattive consigliere. “Io non perdo mai: o vinco o imparo”, diceva Nelson Mandela mentre combatteva la sua battaglia contro l’apartheid. Una buona idea può essere abbandonare i bollettini di guerra, informarsi quanto basta per non restare fuori dal mondo. Questo è il momento, piuttosto, di esaminare il nostro comportamento psicologico. Di fare autoanalisi. E se non si ha una buona coscienza di sé o si è disperati, si può chiedere un aiuto psicologico. Noi lo stiamo facendo al telefono e anche gratuitamente. Infatti, il coronavirus può slatentizzare vecchie paure e bisogna darsi gli strumenti per capire e fare prevenzione per affrontare il dopo. Se non lo si farà, il coronavirus sarà servito a ben poco!».

Lo slogan #andràtuttobene. È un’illusione o un’utile strategia per tenere alto il morale e ricaricarsi di energia positiva?

«È senza dubbio un modo per darsi energia collettiva. In momenti come questi, si diventa solidali. E quell’energia, aggregata, può diventare contagiosa. Perché è proprio vero che nessuno può salvarsi da solo e che tutti abbiamo bisogno dell’altro. Ma, soprattutto, hanno bisogno di noi i poveri, i dannati della terra che da sempre chiedono aiuto e i cui problemi sono annosi e non risolti, da sempre».

L’Organizzazione mondiale della sanità ha definito quella da Covid-19 una pandemia. Perché facciamo così fatica a rispettare le regole?

«Perché non facciamo i conti con la rabbia e con il senso di ingiustizia. Cerchiamo i colpevoli fuori di noi e, quindi, non siamo in grado di darci una disciplina. Solo quando avremo superato questo senso di frustrazione, riusciremo a riscoprire l’immedesimazione nell’altro e nelle sue difficoltà».

Come affrontare il burn-out, se si è un operatore sanitario, un agente delle forze dell’ordine, una cassiera del supermercato, un netturbino o un qualunque altro lavoratore appartenente alle categorie che ora non si possono fermare?

«Li chiamiamo nuovi eroi, ma fino a ieri non li avevamo neanche mai considerati. A questi lavoratori che si stanno spendendo più degli altri – o sono costretti a farlo, affrontando paure e angoscia di malattie e morte – per il superamento dell’emergenza, andrebbe dato un sostegno reale: un riconoscimento economico, una visibilità sociale, un sostegno psicologico. Anche se i loro nomi rimarranno sconosciuti, queste categorie vanno rispettate, nominate e lodate pubblicamente. Quando tutto sarà finito, poi, andrebbero ringraziate, basterebbe anche solo un attestato simbolico, ma ad una condizione: non dimenticarsi di loro e continuare a vederli, sostenerli economicamente, socialmente e psicologicamente anche dopo».

Il nostro piccolo orto. Quali consigli per trascorrere la nuova routine quotidiana fra smart working e bambini o anziani da accudire?

«Il rinchiudersi nel proprio orto è una difesa dovuta, anche, a traumi e paure antiche. Nel caso del coronavirus, però, può essere superata se si hanno bambini, poiché si ha finalmente l’opportunità di fare colazione, i compiti e anche cucinare insieme a loro, recuperando la quotidianità troppo spesso trascurata dal tran tran lavorativo e sociale. Se non si hanno figli, o si è anziani e soli, si potrebbe approfittare per studiare: seguire quel corso online che avremmo sempre voluto fare o anche, semplicemente, leggere, scrivere e recuperare il valore del racconto di sé e della propria storia. O, ancora, fermarsi a riflettere sul male che abbiamo fatto alla natura ed imparare a razionare le risorse, il cibo. Sarà un caso, mi domando, che questa epidemia sia partita proprio da una delle aree, Wuhan, ecologicamente più inquinate del mondo, anche dal punto di vista virtuale? Non credo!».

La solitudine. Come affrontarla in questo momento?

«La solitudine c’è sempre stata, non la scopriamo certo adesso. Da questo punto di vista il coronavirus è benedetto perché ha fatto emergere piaghe che ci rifiutavamo di vedere. Spero che ciò ci consentirà di diventare una società in grado di darsi gli strumenti di prevenzione necessari. E che i nostri governanti diventino più consapevoli e smettano di navigare a braccio».

Ecco. Quando l’epidemia sarà alle spalle, che società saremo diventata?

«Che società diventeremo lo sapremo anche grazie alle risposte che daremo. Gli strumenti e le competenze per capire che bisogna cambiare rotta li abbiamo: abbiamo la scienza, la filosofia, la pedagogia, la psicologia, l’arte, la letteratura e abbiamo gli intellettuali organici da consultare ed ascoltare. Il coronavirus è una lezione che, se sapremo coglierla, ci potrà cambiare in meglio. E io, sinceramente, voglio avere fiducia».

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