Magda di Renzo, autrice di Sogni Contagiati, ci parla dell’attività onirica in quarantena
Durante il lockdown abbiamo sognato di più. E i sogni, rivelatori delle paure ma anche dei desideri del nostro inconscio, sono spesso diventati spunti per nuove progettualità di crescita individuale. Ce lo racconta il libro Sogni contagiati, curato dai due psicanalisti junghiani Magda Di Renzo e Bruno Tagliacozzi e uscito prima dell’estate per Edizioni Magi, casa editrice specializzata in temi di psicologia e psichiatrica.
Ne abbiamo parlato con Di Renzo, responsabile del servizio terapie dell’Istituto di Ortofonologia di Roma e direttrice della relativa Scuola di specializzazione in Psicoterapia dell’età evolutiva a indirizzo psicodinamico.
Professoressa, come è nato questo testo?
«Nel nostro lavoro di terapisti abbiamo notato che durante il confinamento molti pazienti avevano iniziato a sognare più del solito. O quanto meno a ricordare quanto avevano sognato la notte precedente. La dimensione onirica è diventata una vera bussola. Tutto è cambiato, non si poteva più uscire né vedere gli altri, ma i sogni si sono trasformati nel grande baluardo per continuare ad andare avanti. È stato molto interessante constatare come i sogni, contagiati da quanto stava avvenendo all’esterno, abbiano avuto una funzione compensativa nei confronti delle coscienze».
Che tipo di sogni avete analizzato durante il lockdown?
«Nella maggior parte dei casi, i sogni hanno rielaborato gli elementi di ansia che erano presenti nel collettivo. La preoccupazione del contagio è stata camuffata simbolicamente con qualcosa di proveniente dall’esterno: un ladro, un’invasione, un incendio»…
Avete riscontrato solo sogni ansiosi?
«No, ci sono state anche visioni molto positive. In linea di massima, la paura sociale ha permesso di enucleare meglio i problemi di ciascuno. Come se la preoccupazione di tutti avesse fatto da grande contenitore: un pericolo esterno che ha ridimensionato quello interno. Per alcuni, in una società che prima del coronavirus era tutta estrovertita, la reclusione si è trasformata in una sana introversione».
Si può dire che il confinamento ha permesso di fermarsi e guardarsi allo specchio?
«Sì, in molti casi sì. La paura per la pandemia “fuori” ha consentito di vedere meglio il nostro “dentro”. E per alcuni – coloro che hanno voluto o avuto più tempo per lavorare su di sé – si è trasformata addirittura in un momento costruttivo tanto che in molti sogni era presente una visione di futuro, un ricominciare in maniera positiva con nuove progettualità. Devo dire, in tutta sincerità, che fra qualcuno dei nostri pazienti c’è anche chi sta meglio di prima».
Come erano organizzate le sedute con i pazienti durante il blocco delle attività?
«Le sedute avvenivano per via telematica, con videochiamate. Nel centro di terapia, di cui sono responsabile, abbiamo in carico più di 500 bambini. Li abbiamo seguiti da subito in remoto. Con sedute per i più grandi o giochi ed esercizi a cui i più piccoli partecipavano, davanti ad un video, insieme ai genitori».
Come ritiene che i bambini stiano vivendo l’emergenza sanitaria?
«I bambini che hanno la fortuna di stare accanto a genitori con una buona regolazione emotiva non usciranno traumatizzati dall’esperienza coronavirus: non vedevano l’ora di passare più tempo con loro e di muoversi con ritmi più lenti. Per i bambini che hanno accanto genitori disregolati emotivamente, invece, l’assenza della scuola ha avuto conseguenze anche molto negative. Ci sono, però, esempi sorprendenti: molti ragazzi con la sindrome di Hikikomori hanno iniziato ad uscire dalle loro stanze: la reclusione collettiva ha evidentemente dato senso a quella che si erano scelti autonomamente».
Cosa si augura per il prossimo futuro?
«Che la capacità di sognare, che seguirà l’evoluzione dell’andamento della curva epidemiologica, prosegua. Il coronavirus si è beffato della nostra ossessione per l’efficienza e della nostra convinzione di essere in grado di controllare tutto, costringendoci a cercare finalmente nuovi paradigmi»