Intervista a Nicolas Lozito: come narrare il cambiamento climatico
È giornalista, ma per una volta sarà lui a dover rispondere alle domande.
Oggi su Clic ospitiamo Nicolas Lozito, che oltre a lavorare per La Stampa cura anche la newsletter “Il colore verde” (“la leggi in cinque minuti, ci pensi tutta la settimana” recita la descrizione) e il podcast “Cambiamenti”, che racconta le storie delle figure chiave dell’Ottocento e del Novecento che hanno aperto la strada ai movimento ecologisti di oggi.
1. Argomento crisi climatica: quando hai deciso di approfondirlo e da cosa nasce questo interesse?
Il clima mi interessa da anni, ancora prima che l’emergenza climatica fosse così discussa. È un tema che mescola molte cose a me care: lo sviluppo, la società, la politica e ovviamente la scienza. Ho ritrovato da poco un mio articolo scritto in era pre-Greta Thunberg. Si intitolava “Il cambiamento climatico esiste davvero?”: il titolo era con il punto di domanda non perché io non fossi sicuro, ma perché all’epoca il quesito era molto cercato sui motori di ricerca. Nel pezzo spiegavo come rispondere alle più diffuse fake news sul tema. Poi è arrivata l’attivista svedese e tutto è cambiato: ora raccontare il caos climatico significa mostrarne la complessità, tutte le sue sfaccettature.
Le notizie sono uscite dai giornali: sempre meno persone si affidano alle testate giornalistiche o ai telegiornali per la ricerca di storie e informazioni. Perché si fidano di meno, o perché non trovano esattamente quello che stanno cercando. La prospettiva si sta ribaltando: le notizie partono dal basso, e si sviluppano in verticale. Seguiamo professionisti molto esperti di un tema specifico e costruiamo così, nella nostra casella, nel nostro feed dei social o nella nostra selezione di podcast, la nostra rassegna iper-personalizzata. Questo meccanismo funziona non solo perché accontenta le preferenze di ciascuno, ma anche perché crea relazioni più forti tra chi scrive e chi legge.
3. Come può evolvere la narrazione del cambiamento climatico per mantenere l’attenzione delle persone di fronte a queste tematiche così importanti?
Intanto deve evolvere. Per farlo è necessario seguire percorsi già collaudati con altri grandi temi contemporanei, come i diritti per esempio. Ovvero bisogna rendere la conversazione sempre più ricca: l’ecologia e l’ambientalismo non possono essere binari, ma avere uno spettro allargato di voci. Ridurre le semplificazioni permetterebbe di rendere tutti più consapevoli: il rischio “green-washing”, ovvero la pratica di alcune aziende che si ripuliscono la coscienza con iniziative che sono verdi solo in apparenza, è dietro l’angolo se non siamo preparati. C’è un altro aspetto per me fondamentale: il climate change avrà un forte impatto soprattutto in futuro, ma dobbiamo guardare con molta attenzione tanto al presente quanto al passato, perché oggi già si vedono i primi gravi sintomi, e negli scorsi anni già tanti pionieri e pioniere hanno fatto scoperte importanti e trovato soluzioni decisive. Ricordarsi di loro è fondamentale per affrontare ciò che verrà.
4. Hai tenuto un workshop dal titolo “Dizionario indispensabile della crisi climatica per giornalisti”. Perché secondo te è necessario un aggiornamento dei professionisti che si occupano di raccontare queste notizie?
C’è una grande regola che insegnano nelle redazioni e nelle scuole di giornalismo: “senti anche l’altra campana”. È una regola efficace e fondamentale: se sento il candidato sindaco di destra, devo ascoltare anche il candidato sindaco di sinistra. Ma raccontando la scienza la stessa regola non si può applicare: uno non vale uno. Per tanti anni il clima è stato raccontato sentendo da una parte gli scienziati e dall’altra qualcuno che non “credesse” al surriscaldamento globale. Eppure, sono decenni che il consenso scientifico è unanime. Ma l’errore dei mezzi di informazione ha distrutto il dibattito: ora bisogna ricostruirlo con i giusti pesi, le giuste parole. Cambiamento climatico, per esempio, è un’espressione oggi troppo debole: meglio emergenza, crisi o, come preferisco dire io, caos climatico.
5. Utilizzare le immagini e le parole giuste per affrontare la crisi climatica, ne parli spesso sul tuo account Instagram. Ci potresti spiegare perché?
Il nostro immaginario visuale è fondamentale. Siamo una società basata sull’immagine: i social più usati fanno tutti uso decisivo delle immagini, le pagine di giornale dedicano alle foto la maggioranza del loro spazio, tv e computer ci riempiono di input visivi. Se chiudete gli occhi e pensate all’11 settembre, oppure la vittoria dei Mondiali dell’82, o la caduta del Muro di Berlino, o ancora, pensate al termine “tsunami” vi vengono in mente delle immagini ben precise. Ma se fate lo stesso esercizio con il cambiamento climatico non sapete esattamente cosa visualizzare. Provate a fare lo stesso esercizio cercando i termini su Google immagini: per il climate change escono solo fotomontaggi di pianeti bruciati dal caldo. Lo sforzo di fotografi e comunicatori è quello di trovare immagini più concrete: lo sforzo del pubblico è quello di uscire dagli stereotipi.
Il mio tono, quando scrivo per la serie o quando leggo per il podcast, è molto simile. Cerco di bilanciare due grandi forze: accuratezza e intimità. Non sono imparziale, perché scienza e politica non lo sono, ma cerco di essere quanto più preciso possibile: non bisogna innamorarsi di una storia a tal punto da perdere la bussola della verità. A volte mi permetto di schierarmi, ma lo faccio spiegando sempre il meccanismo che mi ha portato a determinati pensieri. E cerco di essere quanto più comprensibile e appassionante possibile. C’è una frase della scrittrice americana Terry Tempest Williams che scava da anni nei miei pensieri, e che è la mia stella polare irraggiungibile:
Scrivi come stessi sussurrando nell’orecchio della persona amata.
Vale anche per il caos climatico.
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